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Maldini – Milan: la storia infinita

Di generazione in generazione e, poi, un’altra ancora. Una linea infinita che nemmeno il tempo, con il suo incedere inesorabile, riesce a spezzare. La maglia rossonera, il diavolo sul cuore e San Siro intorno. Dall’altra parte dell’equazione ci stanno i Maldini: Cesare, Paolo e ora Daniel che non ha i capelli lunghi, ma in faccia è identico a papà.
Non si scappa. Entra in campo, gesticola, racconta ai compagni delle indicazioni di Stefano Pioli, così in una manciata di secondi l’occhio si ferma, catturato da un’immagine senza età. Un pomeriggio anonimo, una domenica di febbraio, da ricordare esclusivamente per una data palindroma, si trasforma.
Milano, di colpo, è il centro del mondo, almeno di coloro che sono nati dagli anni 50 in giù. I nonni abbracciano i nipoti, raccontano di averli visti tutti quelli là: storia del club, vita trascorsa aggrappati alle balaustre, sognando dietro un pallone.
La pochezza del presente, il pari interno contro il Verona svaniscono: istantanee di poco conto, dettagli di cui sbarazzarsi, divorati da un turbinio di emozioni, immensamente lungo anche se siamo già nei minuti di recupero. La speranza è in mano ai giovani e non esiste modo più efficace di dimostralo.
Chissà cosa pensa il ragazzino: numero 98 sulle spalle, esordio in serie A e un cognome che può esaltare o pesare come un macigno. Ci vogliono spalle larghe e personalità, la capacità di turarsi le orecchie, per non ascoltare quanti parlano di predestinati.
Lo stesso discorso lo avranno fatto a suo padre, nell’occasione è andata bene, ma i paragoni ne hanno bruciati troppi di calciatori promettenti, travolti dall’onda emotiva di appassionati e addetti ai lavori. Neppure a loro bisogna fare una colpa: i desideri li hanno inventati perchè un giorno si tramutassero in realtà, la fantasia è un cavallo furioso, impossibile da imprigionare dentro briglie squadrate o calcoli di matematica. E poi c’è la poesia a colorare esistenze ricche di troppi problemi e risicati momenti di genuina felicità.
Quasi a voler rompere le catene Daniel Maldini fa l’attaccante: sei gol in nove partite con la primavera e la voglia matta di esultare una volta scaraventato il pallone in rete. Sicuramente papà gli ha raccontato dei punti deboli dei difensori, della finta da scegliere per evitare un terzino e, soprattutto, di stare in silenzio e non rispondere alle provocazioni. In campo, d’altronde, ciascuno porta l’acqua al proprio mulino e la correttezza facilmente si sacrifica sull’altare del risultato.
Funziona così per tutti, o quasi. I Maldini sono un’altra cosa, vanno oltre, raccolgono amore trasversale per la devozione alla causa e il rispetto dell’avversario. Si può essere il miglior difensore del mondo senza sputare e rompere caviglie, giocando correttamente e stringendo la mano al rivale di turno. Ci è riuscito Cesare, lo ha confermato Paolo.
Settecento partite con la stessa maglia, le coppe dei campioni e i record massacrati. Anche i fischi, nel giorno più importante, quello del congedo definitivo. Il numero tre ha alzato la testa, uno sguardo perplesso e niente di più. Inutile riempire d’attenzione chi non capisce l’amore.
La differenza, in fondo è questa qui: se Daniel farà il calciatore, se solleverà la Champions con la fascia al braccio è presto per dirlo. Qualunque cosa diventerà, si ricordi, però, di essere un Maldini. In un mondo carente di valori, ne abbiamo tutti maledettamente bisogno.
VOCE
La maglia rossonera, il diavolo sul cuore e San Siro intorno. Dall’altra parte dell’equazione ci stanno i Maldini: Cesare, Paolo e ora Daniel che non ha i capelli lunghi, ma in faccia è identico a papà.

di Nanni Sofia